Tra il 1956 e il 1958 Salvatore Emblema ha l’opportunità di incontrare e conoscere Mark Rothko, trovandosi di fronte alle sue opere, mirabili scrigni di misticismo luminescente. Quell’incontro è da considerarsi l’elemento catalizzatore che accelerò la reazione chimica da cui si è generata la pittura più fortemente connotata di Emblema, che già da diversi anni, aveva individuato il proprio campo privilegiato di riflessione nella vibrazione cromatica, nella ricerca di una luce osmotica alla materia stessa e nell’impatto perentorio dell’immagine aniconica centralizzata. Emblema ricava la miccia necessaria a un’esplosione creativa comunque ben diversa e distinta. Messa a fuoco una volta per tutte la propria personalità artistica più profonda, a Emblema non servì nient’altro che la concentrazione solitaria, perseguita con coerenza per molti anni nell’isolamento del suo studio di Terzigno, sotto le falde del Vesuvio. Come giustamente faceva notare Palma Bucarelli nel 1979, Emblema aveva constatato che “la radiazione cromatica per cui, in Rothko, il colore forma attorno a sé una nebulosa spaziale, finisce per distruggere non soltanto la superficie, ma anche quella che si potrebbe chiamare la struttura di superficie del quadro”, così giungendo al quadro-oggetto che “porta a operare direttamente, manualmente, sulla realtà fisica della tela e del telaio”.
Nella ricerca di Emblema ci sono la natura in movimento (il drammatico dinamismo del terremoto) e la terra lavica del Vesuvio. Spostandosi su un altro piano, Emblema si è maggiormente concentrato sul rapporto tra tela, telaio e colore, in linea con quella temperie analitica e concettuale della pittura astratta che si è affermata negli anni Settanta. Ecco allora che la vibrazione luminosa dei suoi quadri, sempre pacata, profonda e cromaticamente attenta, scaturisce dall’unitaria, strutturale e osmotica integrazione fra colore e tela di juta, spesso diradata attraverso l’eliminazione di alcuni fili. In tal modo l’artista toglie, riduce, sintetizza, seppure restando comunque fedele alla pittura.
Così facendo l’opera, a causa della trasparenza del supporto, si relativizza e risente dell’ambiente in cui è inserita. Come notò ancora Bucarelli, “il quadro ‘diradato’ di Emblema tende a identificarsi con la parete, la stanza, il paesaggio: a essere insomma un test che, a contatto con la realtà, reagisce nella misura in cui quella realtà è vissuta e pensata cioè naturalizzata e spazializzata”.
L’anima istintivamente concettuale della ricerca di Emblema, ben evidente anche nella pregevole selezione di queste opere, trova conferma in quella sorta di distacco mentale suggerito dall’inquadratura della “cornice” di tela grezza entro cui si svolge l’azione dipinta. In qualche modo, per l’artista il quadro è un filtro, uno schermo, una membrana d’aria, di luce e di ombre che va inserita nella realtà di tutti i giorni, con cui instaura un dialogo magari difficile e sempre problematico.
Ha molta importanza nella ricerca di Emblema proprio l’intervento manuale e artigianale. “Emblema porta al limite estremo l’analisi della pittura anche come artigiano, quasi per dimostrare che, per salvarsi dal crollo generale dei valori, deve ritornare alla sua origine di modesto, ma profondamente conoscitivo lavoro manuale”. Questo aspetto, e non solo, è stato affrontato anche da Giulio Carlo Argan che sosteneva “il quadro è sempre schermo, ma non più schermo di proiezione. Interrompe col suo piano l’unità dello spazio e, imponendo una pausa e un momento di oggettivazione, la continuità del tempo. Non sopportandolo, Fontana ha risolto il problema da schermidore a colpi di punta e di taglio. Emblema lo affronta con pazienza e umiltà di artigiano sfilando la tela e diradando la superficie, gravando contemporaneamente la mano sulla rude carpenteria del telaio. [...] Sfilando la tela, lo schermo diventa filtro e permette al pittore, mentre fenomenizza la luce, di dosarne l’effusione e la vibrazione con l’arpeggio delicato dei fili”. Argan arriva così alla definizione di “detessitura”.
A partire dai primissimi anni Ottanta l’artista di Terzigno ha iniziato a monumentalizzare le presenze segniche e le campiture cromatiche, a dar loro un carisma più sensuale, allentando l’ascetica analisi linguistica del decennio precedente. Nelle opere degli ultimi vent’anni pare quasi di scorgere, talvolta, profili di paesaggi e di campi coltivati, spiragli di cieli, sagome di nuvole o di foglie, voli di rondini oppure la germinazione di semi e i micro-sommovimenti della vita naturale nascosta nell’humus campestre e boschivo. Si accentua così quell’anima tellurica identificabile col processo germinale della natura. Emblema era in qualche modo tornato a una contemplazione del mondo esterno filtrata però dall’inflessibile regola di una pittura concepita come “avventura verso l’ignoto”.
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Tra il 1956 e il 1958 Salvatore Emblema ha l’opportunità di incontrare e conoscere Mark Rothko, trovandosi di fronte alle sue opere, mirabili scrigni di misticismo luminescente. Quell’incontro è da considerarsi l’elemento catalizzatore che accelerò la reazione chimica da cui si è generata la pittura più fortemente connotata di Emblema, che già da diversi anni, aveva individuato il proprio campo privilegiato di riflessione nella vibrazione cromatica, nella ricerca di una luce osmotica alla materia stessa e nell’impatto perentorio dell’immagine aniconica centralizzata. Emblema ricava la miccia necessaria a un’esplosione creativa comunque ben diversa e distinta. Messa a fuoco una volta per tutte la propria personalità artistica più profonda, a Emblema non servì nient’altro che la concentrazione solitaria, perseguita con coerenza per molti anni nell’isolamento del suo studio di Terzigno, sotto le falde del Vesuvio. Come giustamente faceva notare Palma Bucarelli nel 1979, Emblema aveva...
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